I meccanismi della memoria – sia privata che collettiva – si muovono su molteplici binari.
Il ricordo di un individuo, di una società, di un territorio può permanere nel tempo grazie a mezzi differenti: immagini fotografiche, ad esempio, o il racconto orale tramandato di generazione in generazione, o documenti e testi scritti, oppure oggetti o ciò che resta di essi.
Quest’ultima categoria è spesso la meno immediata: senza dubbio è quella che richiede maggior attenzione e sensibilità da parte di chi la raccoglie, talvolta salvandola dall’indifferenza che l’avrebbe condannata alla distruzione o ad essere coperta dalla polvere degli anni.
Eppure questi frammenti hanno uno straordinario potere evocativo. Del passato non conservano solo il ricordo personale di un narratore, né l’occhio soggettivo di un fotografo, ma recano le tracce di un’esistenza ancora tangibile, reale. Sulla loro superficie – spesso abrasa, ossidata, scolorita, danneggiata, ferita – essi registrano la vita che hanno conosciuto e le impronte delle mani che li hanno toccati, di qualcuno che li ha posseduti, utilizzati, forse anche buttati o abbandonati in un angolo.
Archeologo del contemporaneo, Carlo Mangolini costruisce memorie collettive partendo dal ricordo individuale di un oggetto recuperato. Nel farlo mette a frutto i suoi molteplici talenti: la logica e il rigore dei suoi studi e del suo mestiere di architetto, l’attenzione per le dinamiche di una società e uno sguardo intelligente sulle relazioni tra diversi elementi in uno spazio, coltivati grazie alla sua attività di curatore di mostre ed eventi culturali ed il linguaggio personale di un artista libero dagli schemi, che ha seguito i suoi percorsi, facendo le proprie scelte senza mai adeguarsi alle consuetudini imposte dal sistema dell’arte.
Nella messa a fuoco del suo operare artistico gioca un ruolo fondamentale la sua città di provenienza: L’Aquila. Il ricordo ancora tangibile del drammatico terremoto che ne ha letteralmente distrutto non solo le architetture ma anche il tessuto sociale, offre alla ricerca di Carlo Mangolini un terreno ricco di motivi di riflessione. Basterebbe la sua opera Quello che resta, composta da frammenti di oggetti in ferro che fanno da cornice ai resti di un grazioso putto di ceramica (un tempo esposto nel suo studio devastato dal sisma), per comprendere la via espressiva di questo artista capace di affidare un ricordo personale a un semplice oggetto: un oggetto che, immediatamente, si trasforma in icona, in un’immagine potentemente evocativa nella sua disarmante semplicità.
Attraverso gli oggetti – vecchie chiavi, serrature, vecchie lampadine, rubinetti, lame, seghetti, pezzi di ferro arrugginito… – Mangolini tesse trame tutte da leggere. Con curiosità e una sensibilità fuori dall’ordinario, Carlo indaga, cerca, studia, comprende… e scrive storie; storie che raccontano, fanno riflettere, denunciano o semplicemente – romanticamente – ritraggono le persone, i luoghi, le società che lui ha incontrato, mescolando ricordi, incrociando esistenze, culture, sentimenti… costruendo nuove memorie.
Simona Bartolena